Slayer – “Reign In Blood” (1986)

Artist: Slayer
Title: Reign In Blood
Label: Def Jam Recordings
Year: 1986
Genre: Thrash/Black Metal
Country: U.S.A.

Tracklist:
1. “Angel Of Death”
2. “Piece By Piece”
3. “Necrophobic”
4. “Altar Of Sacrifice”
5. “Jesus Saves”
6. “Criminally Insane”
7. “Reborn”
8. “Epidemic”
9. “Postmortem”
10. “Raining Blood”

Non esiste modo più scontato, prevedibile ed allo stesso momento spassionatamente veritiero di aprire il presente scritto se non specificando, a chiare lettere e con quell’onestà fin troppo simile al bieco mettere le mani avanti, che ciò che “Reign In Blood” ha rappresentato per il Metal più o meno pesante e, nel suo piccolo, per la musica popolare americana -e molto probabilmente non solo- va oltre le competenze e possibilità descrittive di quelli che alla fine rimangono semplici estimatori con giusto una più o discreta abilità con le parole ed una connessione internet un minimo decente.
Se a trentacinque anni di distanza infatti, segnati tra l’altro da una graduale smitizzazione cui l’istituzione di Los Angeles si è senza apparenti remore prestata tra snervanti polemiche interne ed esterne e merchandising da doppio sopracciglio alzato, la sola vista del logo degli Slayer continua ad incutere quel misto di timore diabolico e curiosità il quale (almeno per chi scrive) costituisce la vera forza motrice che attira verso le profondità abissali di questo sottomondo, allora è perché “Reign In Blood”, pur non essendo considerabile come il miglior disco dei californiani in assoluto, è la vera e loro più lampante incarnazione di un concetto di arte totale che comprende ogni singolo aspetto di essa così come di chi l’ha concepita: un tale blocco unico di dieci pezzi per nemmeno mezz’ora di durata, avulso da qualsivoglia paragone ed ubbidiente a regole che sono sue e di nessun’altra opera coeva, poteva essere messo a punto solamente da un gruppo già di per sé disunito e che meno di tutti si riconosceva nell’ideologica fratellanza del Thrash Metal contro il successo soverchiante delle band spuntate come funghi sotto le insegne colorate del Sunset Strip, e che anzi era rimasto nella stessa L.A. di Mötley Crüe e Dokken per corrodere dall’interno l’edonismo della me-decade reaganiana da loro celebrata, scoperchiandone il marcio nascosto come monito di un Inferno che ogni anima aspetta.

Il logo della band

Qualunque pubblicazione si sia occupata di Thrash Metal non ha mai mancato di evidenziare come il 1986 sia l’anno della maturazione definitiva della corrente sull’onda di classici del calibro di “Master Of Puppets” e “Peace Sells… But Who’s Buying?”. Ma non si può raggiungere l’esperienza dell’età adulta senza il trauma scatenante, sia esso l’incidente che si porta via Cliff Burton oppure un’opera di rottura quale si rivela essere, appena dieci giorni dopo la tragedia occorsa ai Metallica, il terzo full-length dei loro ex-concittadini. La perdita d’innocenza da parte del genere si palesa già da una copertina immonda, che nulla ha a che vedere col fumettoso sense-of-wonder allora in voga ma pare, al netto contrario, il blasfemo incrocio tra gli sconci dettagli degli Inferi di Bosch e le morbose sproporzioni della Guernica di Picasso. A finanziare oltretutto le operazioni del quartetto non è più la rassicurante Metal Blade del compagnone Brian Slagel, immersa nel borghese clima di birra e divertimento ad alto volume; contro ogni previsione e su esplicito volere del produttore esecutivo Rick Rubin, la truppa di King e Hanneman sbarca infatti in quella Def Jam Recordings che è già sinonimo dell’intransigente movimento Hip Hop, nel 1986 ancora legato alla dimensione newyorkese ma i cui semi stanno germogliando anche nelle periferie di Los Angeles, nutriti dal sangue versato nelle sparatorie tra Crips e Bloods e sbocciati col fenomeno N.W.A. di lì a pochissimo.
Sarà quindi per osmosi o per pura coincidenza, ma il clima di pericolo autentico che si respira negli uffici dell’etichetta pare ammantare lo stesso “Reign In Blood” per via del suo alone di malvagità concreta, tangibile e soprattutto verosimile. Il testo dell’arcinota opener “Angel Of Death”, sul quale la band ha costruito un immaginario più che ambiguo secondo una tendenza ante-litteram raccolta poi da vari esponenti dello scenario Black Metal, ne è esempio massimo; lontanissimi dalle sterili provocazioni di Sid Vicious e Lemmy Kilmister, i versi del brano sono la prima porta d’ingresso nella musica Heavy dell’orrore dei campi di sterminio, e causano parecchio subbuglio in un ambiente che mai si era trovato così tanto vicino al Male considerato più puro, quello compiuto dall’uomo e malsepolto nel passato, i cui strascichi nel suo stile di vita odierno l’America (se non tutto l’occidente, più in generale) preferirebbe in larga misura ignorare.

La band

Vecchie polemiche, direbbero alcuni, sulle quali non vale certo la pena discutere ancora dopo trentacinque anni. A ben vedere, però, anche le tracce in questione sono state sviscerate in innumerevoli retrospettive; eppure, il grande potere dei reali capolavori è sempre stato quello di sapersi prestare ad infinite riletture ognuna a sua volta incentrata su differenti prospettive. Tutto si è detto sul drumming qui assurdo del pioniere Dave Lombardo, sugli assoli atonali dei due axemen e sulla prova vocale invasata di Araya, mentre qualora volessimo concentrarci unicamente sull’impatto registrato sulla corrente nera al centro del nostro percorso di riscoperta editoriale saremmo addirittura costretti a ridimensionarne la portata, non essendoci qui praticamente nulla né dell’esageratezza dei Venom (già di quattro se non cinque anni prima), né del malessere dei Celtic Frost e né tantomeno del rivoluzionario suono dei Bathory. Al contrario, il punto focale per comprendere oggi “Reign In Blood” è forse allargare la visuale all’intero universo oggi definito Metal estremo, articolato sì in numerosi filoni ma tutti accomunati dall’affrancarsi dalle radici ben salde nella musica Rock di massa che ogni act per quanto fondamentale (dai Judas Priest ai Motörhead, sino ai padrini Black Sabbath) aveva finora mantenuto, garantendo uno sviluppo lineare testimoniato dai buoni se non eccellenti risultati ottenuti durante la sua decade d’oro par excellence nelle classifiche di vendita.
Ebbene, ciò che gli Slayer racchiudono negli infuocati -neanche trenta- minuti del terzo album deflagra questa continuità grazie a tratti stilistici deformati dai quattro strumentisti: nulla nasce dal nulla, com’è ovvio sia, ma nel 1986 chiunque seguisse il settore ha dovuto rendersi conto di essere appena entrato in una nuova era inaugurata dall’inedito parossismo ritmico della batteria e dagli stridii delle chitarre, entrambi stratagemmi compositivi di cui ora sarebbe inutile stare a rimarcare l’influenza su qualsiasi realtà dedita all’arte delle sette note in nero. Il riascolto odierno di “Reign In Blood”, piuttosto che all’esercizio di stile di enumerarne i milioni di discepoli, spinge a riflettere e meravigliarsi dell’abilità irreplicata degli statunitensi nel costellare una prova rapida, omogenea e monolitica di singoli istanti divenuti iconici, in un highlight reel che rende l’intero percorso un memorabile tunnel degli orrori, incarnati appunto da attimi di perfezione penetrati sottopelle a qualunque appassionato. “Angel Of Death” è anche in questo senso un brano clamoroso, che passa da quel raggelante urlo subito piazzato a tradimento alla sanguinaria battaglia tra le due asce, culminante in un bending di Hanneman maligno come difficilmente può essere un’unica nota e nello stacco di doppia cassa che è adrenalina pura ogni maledetta volta. Il vagone corre fuori dai binari attraverso il proto-Death Metal di “Necrophobic”, “Jesus Saves” e “Reborn”, nelle quali la voce assatanata di Tom Araya troneggia senza sfociare nel gutturale di Jeff Becerra bensì facendosi medium dell’atavico odio che questa musica esprime, tutto ciò mentre la sottovalutatissima “Epidemic” vede una partenza da infarto diretto col fulmineo sfogo di Lombardo ed il rozzo riff sul mi basso. Ma forse uno soltanto è il momento in cui “Reign In Blood” raggiunge l’immortalità, ed è chiaramente la nebbia di feedback dove si agita e infine si libera, scatenato dal nono di quei triplici colpi sui timpani ormai fondamento dell’immaginario collettivo metallico, un riff fatto della materia di cui è fatta solo la leggenda; perché “Raining Blood” è la traccia che puoi sentire milioni di volte ma che odora di zolfo come la prima, tanto nell’esaltante reprise centrale costato parecchi mal di collo quanto nell’ultimo, allucinante minuto e mezzo. Ogni parvenza di vita è annegata dal secondo diluvio universale e dal silenzio ultimo che sa di compiuto massacro; nemmeno il Demonio in persona è riuscito a trattenere i suoi prediletti quattro cavalieri, i quali ora marciano verso un luogo ancora più oscuro situato a sud del Paradiso.

Tutti noi abbiamo almeno una piccola storia con protagonisti gli Slayer, che siano i lividi rimediati sotto ad un loro palco oppure mamma e papà che, magari per la prima volta, si lasciano sfuggire qualche dubbio di fronte ad una copertina o una maglietta recante un teschio, una croce rovesciata e quella S stilizzata in modo assai peculiare. Non esiste e non esisterà mai più un ensemble capace di catalizzare cotanta approvazione (diciamolo, anche commerciale) rivestendo però il delicato ruolo di definitivo accesso nel reame della violenza suprema su pentagramma, e gli stessi musicisti lo confermeranno ad ogni tentativo di replicare il loro terzo opus, prima col godibile ma artisticamente irrilevante “Divine Intervention” e poi col tragicomico “God Hates Us All”, lavoro tuttora celebrato da molti sebbene nato male ed invecchiato persino peggio: “Reign In Blood”, come del resto qualsiasi vera grande opera, divora i suoi autori condannandone in partenza gli sforzi di replica, in questo caso conditi dall’estetica di un occultismo a buon mercato che ad oggi cozza abbastanza coi quattro milionari divisi da dispute economiche ed infine rimasti anzitempo in tre.
Tuttavia, nessun revisionismo di sorta potrà mai togliere loro la paternità di un qualcosa di troppo grande da quantificare in parole; come a noi il brivido di emozione profonda che ogni grido, ogni pennata ed ogni colpo di tamburo generano durante una mezz’ora che ha davvero significato tanto, forse troppo, nello sviluppo del nostro piccolo mondo, oltre che per la necessaria formazione del gusto nella nostra personale corsa all’estremo, qualunque significato possa poi avere questo eccessivamente dibattuto vocabolo. In fondo, trentacinque anni non sono nulla quando regni all’Inferno, come non lo saranno settanta o un intero secolo, ma se è vero che la qualità è fatta per durare e la Storia per ripetersi, allora il sottoscritto è pronto a scommettere che da qualche parte su questo pianeta un ragazzino si sta nascondendo dai genitori per provare quel disco di cui tanto ha sentito parlare, e che forse finirà col cambiarlo nel profondo.

Michele “Ordog” Finelli

 

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